Ieri e oggi: il teatro e la peste

Dopo centinaia d’anni di sospetto e censura, il Decameron torna a parlare al presente. Sarà innesco, stimolo, suggestione stasera dell’Opendoors di Angélica Liddell, in residenza alla Biennale Teatro per la creazione del suo nuovo spettacolo.
Contestata per immoralità quasi immediatamente dopo la pubblicazione, discussa nel clima pre- e post-tridentino, subito inserita nel Cinquecento nell’Indice dei libri proibiti, la maggiore opera di Boccaccio riprende il centro dell’attenzione fra Otto e Novecento, diventando riferimento e spunto importante nelle arti, nella cultura e nella letteratura degli ultimi 150 anni.
Sarà per la forma della favola, per il suo afflato allo stesso tempo sovversivo, popolare, ed educativo. Sarà per i protagonisti, una libertina brigata di giovani in fuga che sceglie di rinchiudersi insieme in campagna, sottraendosi all’infuriare del morbo in città. Sarà forse per la cornice – ma è certo molto più che una cornice, come sosteneva il nostro maggiore studioso boccaccesco, Vittore Branca – della peste del 1348, che l’autore sceglie come contesto dell’opera, scritta mentre il flagello si stava abbattendo su Firenze e sulla famiglia dell’autore stesso, e pubblicata proprio a ridosso dell’epidemia.

La peste: morbo strano, fra il carnale e lo spirito, a lungo biologicamente incompreso e per altrettanto tempo spiegato sul piano metafisico e religioso. Colpisce subdolamente, improvvisamente, trasversalmente; non lascia scampo né speranza: ha distrutto e falciato a più riprese la civiltà umana, costringendola ogni volta a ripensarsi e ricostruirsi. Ed è diventata immagine centrale dell’Occidente fin dalle sue origini.

Si comincia dall’antichità classica: con gli strali lanciati da Apollo sull’esercito acheo e il senso di colpa di Edipo – “io sono la peste” rivendica il re tebano davanti al flagello –, ma anche con le innumerevoli allegorie cristiane. Si continua poi con Tasso, Ariosto, Petrarca (la sua Laura cadde vittima del morbo) e, passando per l’enorme diffusione fra Cinque e Seicento, si giunge all’opera capitale di Manzoni Fermo e Lucia in origine doveva comprendere un’appendice specificamente dedicata, Storia della colonna infame, poi pubblicata autonomamente.
Avvicinandoci a noi, le immagini e i riferimenti si moltiplicano: ci sono Verga e Moravia, la poesia di Montale, Puškin e Kafka; la Morte a Venezia di Thomas Mann (per restare in tema lagunare); e naturalmente i racconti dell’orrore, da Edgar Allan Poe a Stephen King e ai fumetti di Dylan Dog.  Troviamo centrale il tema della peste nelle visioni opposte e complementari di Camus e Artaud, fra materialità e metafisica, disperazione e speranza, solidarietà e individualità; e anche nel cinema, da Pasolini ai Taviani; il Novecento sembra accerchiato dall’immagine devastante del flagello,  dalla peste brune del nazismo – una volta passato il flagello, diceva Camus, bisogna sempre stare all’erta e tenere gli occhi aperti in caso tornassero i ratti – fino a quella versione tutta novecentesca del morbo che è l’Aids nella visione di Susan Sontag.
La malattia ha avuto una fortuna inarrivabile nell’immaginario artistico, culturale, letterario dell’Occidente. E viene da chiedersi perché.

Innanzitutto la peste – secondo Corrado Givone, che ha dedicato un libro alla sua “metafisica” – è un “fatto che diventa destino”, che ha qualcosa di fatale: «così, almeno per secoli» – continua il filosofo – «si è creduto di poter interpretare questa specie di maledizione che grava sull’umanità». E d’altro canto come constata Stefano Tomassini (autore anch’egli di un saggio sul tema della peste, ma a carattere artistico-letterario) «nella ricognizione dei materiali letterari rinvenibili intorno al soggetto della peste è costante (…) l’identificazione del flagello con una punizione divina che apre, attraverso il decorso purificatore della malattia, su di una liberazione». Fin dalle origini, la malattia si fa metafora di una “catastrofe fisica e psichica”, come ebbe a notare la Sontag; e la peste si salda geneticamente con l’idea del destino, della punizione divina, della necessità fatale di purificazione di società malate, corrotte, irrecuperabili.

L’annientamento di qualsiasi struttura sociale, norma culturale e morale, abitudine, uso, sapere è l’altro elemento sempre legato – in campo artistico e letterario – al dilagare incontrollabile del morbo. Che porta con sé almeno due correlati fondamentali: il primo è il discorso della strana, ingestibile “libertà” sprigionata nella progressiva disgregazione sociale provocata dalla peste. «Mi attira l’idea che quella prossimità della morte ci restituisca una strana sensazione di libertà», riflette Angélica Liddell nel talk pubblico della Biennale, presentando il suo approccio a Boccaccio; ma – si chiede l’artista – «cosa possiamo fare di questa libertà?».

La seconda questione affrontata da vari pensatori, autori e artisti può forse dare una qualche risposta a questa domanda definitiva: è quella della possibilità di ricostruzione che consegue la totale distruzione portata dalla peste. Secondo Kurt Flasch – altro eminente studioso del Decameron – la distruzione del sapere corrente, tramandato è l’occasione nell’opera boccaccesca per fare spazio al nuovo: se la brigata si sottrae al flagello rinchiudendosi nella villa in campagna, dall’altro lato i dieci giovani possono, allo stesso tempo, fare i conti con la propria cultura – non a caso l’opera è considerata un preziosissimo e raro spaccato della civiltà trecentesca – e anche porre le basi per la ricostruzione di una civiltà inedita, diversa (di lì a poco infatti sarà l’Umanesimo, il Rinascimento).

Il teatro, in tutta questo questo percorso, non fa certo eccezione. La stessa Eleonora Duse, ricorda Tomassini, si era trovata a sostenere che l’unico modo per “salvare” il teatro fra Otto e Novecento fosse che tutti gli attori e attrici morissero, proprio di peste.
Ma per rispondere a questo tipo di interrogativi bisogna tornare naturalmente ad Antonin Artaud e al suo radicale, tremendo, verissimo Le Théâtre et la peste. Più che un virus, il morbo è per lui un’entità psichica, che lo porta a riflettere sulla “fisionomia spirituale” di una malattia che “scava l’organismo e la vita”. Anche Artaud si trova a ragionare sulla libertà implicata in una forma così assoluta di annientamento e sul crollo delle “forme di vita normali”. Ma la sua metafora è tutta rivolta al teatro, in un connubio fra peste e scena che fa risalire addirittura a Sant’Agostino, per la capacità di provocare “le alterazioni più misteriose” nell’individuo e nella collettività.
E poi Artaud va oltre: «nel teatro, come nella peste, c’è qualcosa di vittorioso e insieme di vendicatore» e la metafora è centrale non solo perché l’arte performativa – come il morbo – libera, distrugge, contagia, porta all’estremo, fa scoppiare “ascessi collettivi”. Ma in quanto, in modo definitivo, «il teatro, come la peste, è una crisi che si risolve con la morte o con la guarigione». E basta.
Anche nel Teatro e la peste è la rifondazione, il rinnovamento, la ricostruzione l’obiettivo ultimo e profondo di Artaud, agito attraverso l’idea del teatro per arrivare al resto del mondo.

Il teatro del nostro tempo è in crisi: le difficoltà finanziarie, istituzionali, ma anche poetiche ed estetiche hanno condotto in tanti casi a un senso di stagnazione, nel migliore dei casi alla domanda sul senso, il ruolo e lo scopo del teatro, dell’arte e della cultura in questa società. La nostra stessa civiltà si trova – forse come nel Trecento fra Medioevo e Rinascimento agli albori della modernità, o come fra Sette e Novecento, sul limitare del suo declino – su un crinale di mutazione estremamente evidente, spesso incomprensibile, trasversalmente insostenibile, travolgente e lacerante, radicalmente vivo e pericoloso.
«Il problema che ora si pone» seguendo Artaud, ieri come oggi, «è di sapere se nel nostro mondo che decade, che si avvia senza accorgersene al suicidio, sarà possibile trovare un gruppo di uomini capaci di imporre questo concetto superiore del teatro, che restituirà a tutti noi l’equivalente magico e naturale dei dogmi in cui abbiamo cessato di credere». Se quel gruppo di uomini che – come la brigata di Boccaccio, i medici di Camus, gli autori delle avanguardie schiacciati fra le due guerre – abbiamo forse anche noi la responsabilità e l’opportunità di essere, saprà immaginare e concretizzare un senso nuovo, necessario per il teatro nella società, un ruolo essenziale da giocare nella crisi politico-culturale corrente e – se sopravviveremo – anche magari nella “guarigione”, nella ricostruzione che potrà forse venire dopo.

di Roberta Ferraresi

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