Il teatro degli Altri

Bisognerebbe sempre pensarci, al dolore degli altri – come diceva Susan Sontag.
Alla condizione degli altri: anche a teatro.
Pensare, almeno noi critici, sistematicamente e continuamente a quelli là, che stanno in scena: gli attori, le attrici. Tanto più quando sono professionisti (o non professionisti) particolari e unici. Di solito, quando ci troviamo di fronte al teatro cosiddetto “sociale”, partiamo prevenuti. Magari positivamente, ma prevenuti.
È un teatro, infatti, che implica la presenza di individui o gruppi che vivono contesti sociali determinati e determinanti. Il carcere, la malattia mentale, il disagio fisico: persone che incarnano, esprimono la propria condizione, anche attraverso il teatro.
Allora noi, i critici dotti e sapienti, andiamo a quegli spettacoli con l’amorevole compassione preventiva, con l’adesione rivoluzionaria in tasca, con il libretto del perfetto democratico imparato a memoria. E ne usciamo, ovviamente, sconfitti.
Perché il pre-giudizio è sbagliato, sia esso negativo o positivo.

L’adesione acritica è deleteria; rischia di portare a una stucchevole compassione a un compiacimento zuccheroso che non serve a nessuno, tanto meno a quelli là – a quelli sul palco.
Mi si dirà: anche il teatro “normodotato” è portatore di evidenti disagi, individuali e collettivi. E tutto il teatro, in quanto tale, è “sociale”.
Eppure vi è una specificità in quei percorsi artistici nel “sociale” che è innegabile, sia dal punto di vista registico che, ovviamente interpretativo. I registi del “teatro sociale” sono normalmente iper-professionisti della scena, che trovano in attori generalmente non professionisti terreno fertile (e incolto) per le proprie ricerche.
Un po’ come i Padri fondatori della regia (Copeau in testa) adoravano gli “amateurs” per non essere contaminati dai vezzi dell’attore borghese, così la regia di “teatro sociale” si declina in sperimentazioni di assoluto livello, tanto da arrivare al fresco conio di una nuova definizione “teatro sociale d’arte”.
Curioso ossimoro, no?

"Pinocchio" (foto Marco Caselli Nirmal)
“Pinocchio” (foto Marco Caselli Nirmal)

Con buona pace di Schechner, che prevedeva una corrispondenza inversamente proporzionale tra coinvolgimento e forma, qui a fronte della normale e ampia partecipazione del teatro sociale cominciano a emergere formalizzazioni di indubbia qualità e originalità.
Bisogna dunque riflettere su tutto questo – e su molto altro – andando stasera a vedere Pinocchio di Babilonia Teatri.
Il gruppo veronese è stato insignito del meritatissimo Leone d’Argento anche perché – come si legge nella motivazione – stanno spingendo “l’eccellenza della loro ricerca drammaturgica verso nuovi percorsi scenici”, che sono poi – tradotto in soldoni, proprio quelli del “teatro sociale”.
Stasera, allora, vediamo Pinocchio, realizzato con tre “non-attori”, dell’Associazione “Gli amici di Luca”, che hanno vissuto esperienze di coma. Domenica invece, l’Opendoors di Babilonia Teatri attraversa il Purgatorio dantesco con la compagnia Zerofavole, laboratorio e scuola di teatro per l’interazione sociale.

"Purgatorio" (foto di Martina Manzini)
“Purgatorio” – foto di Martina Manzini

Allora, di fronte a questo “nuovo teatro di ricerca”, si tratta di trovare – pure in fretta – linguaggi, codici, teorie ricettive aggiornate. Che non escludano ovviamente il giudizio critico di valore, anzi: ma solo a patto che quel giudizio sia frutto di una consapevolezza arricchita dai codici elaborati in scena. Occorre sapere, insomma, che “portare la voce”, “muovere il corpo”, “impossessarsi dello spazio”, “prendere la luce”, “relazionarsi con l’altro” – tutte quelle belle espressioni che sono alla base della pratica teatrale – possono essere diverse da quelle cui siamo “abituati”. Come pure la drammaturgia, la scrittura, i tempi possono cambiare. Insomma: la parola teatro, per fortuna, si declina sempre più al plurale, e con il “teatro sociale d’arte” si aprono ulteriori mondi possibili.

Resta, però, quella questione: il dolore degli altri.
Le nostre azioni, i nostri pensieri, i nostri sguardi hanno conseguenze: sono transitivi, passano, lasciano un segno. Incidono la carne, restano nel ricordo. E noi “felici”, noi “fortunati”, noi banalmente “normali” dovremmo ricordarcelo, ogni giorno, ben sapendo che il confine, tra vita e teatro, come sempre è sottile.

di Andrea Porcheddu

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