Ultimo giorno in redazione: un saluto da Biennale Theatre Community

Si chiude qui il nostro blog, la nostra “comunità” teatrale per il 2016.

Abbiamo avuto la fortuna e il piacere di seguire, in questi anni, il percorso individuato da Àlex Rigola all’interno del progetto Biennale College.
Ed è stato, lasciatemelo dire, un percorso molto bello, gratificante, emozionante. Ma anche formativo e sorprendente.

Formativo certo per noi critici, che abbiamo avuto la possibilità di incontrare, intervistare, conoscere, vedere all’opera i maestri che – in tutti questi anni – sono approdati in laguna. Va detto: alla Biennale Teatro sono passati tutti o quasi i maggiori protagonisti della scena europea e internazionale.
Ed è stato decisamente affascinante poter seguire i workshop, i metodi di lavoro, scorgere i fermenti della creazione, intuire modi e tensioni diverse, cogliere quell’attimo in cui dall’esercizio, dalla prova si sfocia in quel qualcosa di più che sarà teatro. Abbiamo provato a dar conto di quelle strane alchimie, di quegli incontri, di quelle lezioni.

Il nostro laboratorio, infatti, è stato una “testimonianza”, un lungo racconto di quanto accadeva negli spazi della Biennale: e speriamo sia stata testimonianza lucida, critica, ancorché dall’interno, condivisa, a volte quasi complice.

Al tempo stesso, il nostro viaggio a Venezia consisteva in un laboratorio della e sulla critica. Ponendo al centro, sempre, il tema della deontologia professionale, della competenza, dell’autorevolezza, il nostro workshop ha ospitato, fatto “lavorare”, dato voce a moltissimi giovani critici italiani, che sono passati alla Biennale portando le loro scritture in divenire (e oggi, molti sono autorevoli e ascoltati critici). A volte con maggior aderenza, altre con ingenua semplicità, comunque con impegno abbiamo scritto, giorno dopo giorno, con lo stesso entusiasmo e la steessa serietà con cui gli altri laboratoristi andavano in scena.

È servito, questo laboratorio, anche per fare il punto sul dialogo tra critica e nuovi, ma ormai vecchi, media. I “social”, in particolare, sono stati terreno di riflessione e analisi, soprattutto da quanto al progetto si è unita Anna Pérez Pagès, giornalista catalana esperta di comunicazione e nuovi media. Con Anna, grazie alla sua esperienza, si è implementato assai il rapporto tra analisi, racconto e strumenti di relazione (o dialogo) con gli utenti di facebook e twitter: piattaforme ormai fondamentali per testimoniare quanto accade.

Insomma, il workshop di critica è stato – tra i primi in Italia – l’occasione per una “metacritica”, ossia di critica alla critica. Discussioni lunghissime, scazzi tra di noi, confronti serrati, idee, proposte, uscite strampalate, giochi, immagini, video, lanci, battute, parole d’autore, disegni, caricature, recensioni, interviste, stroncature…
Nelle “pagine”  quotidiane (prima addirittura cartacee e poi virtuali) abbiamo dato spazio a tutto: sempre con il costante rispetto per gli artisti, per i giovani laboratoristi che hanno vissuto e fatto vivere queste Biennali.
Ci siamo riusciti? I numeri potrebbero incoraggiarci: quest’anno oltre 800 contatti unici e circa 1200 pageviews al giorno non sono male per un blog stagionale come il nostro.

Di fatto, qui come altrove, sembra ci sia gran bisogno di critica: e il teatro non fa eccezione. Necessita, ancora, di uno specchio severo e non indulgente. Ma c’è bisogno, ovunque, di pensiero critico: anche e soprattutto nella vita di ogni giorno. Cerchiamo di fare la nostra parte: a volte ci riusciamo, altre no. Eppure insistiamo: cavalieri fantasma che continuano a girare nelle brume e nelle lande desolate del reale, in cerca di quel “sacro graal” che è, forse, una utopia di teatro (la nostra: in fondo ognuno ha la sua, no?). E continuiamo a divertirci, a indignarci, a commuoverci a teatro.

Poi c’è Venezia: con quelle sue calli, i campi, la sua retorica e opprimente bellezza. Con i turisti e i vaporetti, con i ricordi – chi non ha ricordi di Venezia? – e gli spritz. Ed è bello pensare che, in questa città sempre uguale a se stessa, da anni arrivino anche le attrici, gli attori, i drammaturghi, i poeti, i tecnici: quella comunità appassionata e piena di energia, perplessa e stupita, generosa che si dà appuntamento alla Biennale Teatro. Non c’è bisogno di tirar monetine come alla fontana di Trevi: perché è difficile non tornare, per chi ci è stato almeno una volta. Anche l’estate 2016 ha visto molti ritorni: dei maestri – come, per citarne solo alcuni, Donnellan, Castellucci, Murgia, Jatahy, Liddell, Ravenhill, Rambert, Koršunovas, Kaegi o gli italiani Babilonia e Motus – ma anche di tanti allievi, che spesso frequentano anche più d’un laboratorio.

L’edizione 2016 della Biennale, infine, segna anche la conclusione del percorso direttivo di Àlex Rigola: lo salutiamo, lo ringraziamo e lo festeggiamo. Ha fatto un gran percorso di lavoro, ben coadiuvato ovviamente da tutto l’ottimo staff. Ha riportato la Biennale Teatro al centro della vita teatrale italiana e non solo: il nuovo direttore – chiunque sarà – avrà una solidissima base da cui partire per far crescere, ancora, questo festival unico per storia e qualità.

di Andrea Porcheddu

Sette anni di Biennale Teatro. Intervista a Àlex Rigola

Àlex Rigola, da sette anni alla direzione della Biennale Teatro, ha portato a Venezia artisti, spettacoli, proposte sceniche di grande respiro nazionale e internazionale. Ma soprattutto maestri e allievi, per una Biennale che – anche grazie alla personale declinazione del regista catalano – ha voluto ripensarsi come College internazionale, capace di accogliere ogni anno artisti giovani e più maturi a lavorare insieme al presente e al futuro del teatro.
Biennale Theatre Community chiude il suo percorso di osservazione, documentazione e racconto della Biennale Teatro con un’intervista al direttore, che testimonia come il progetto sia nato e cresciuto in questi anni.

Cominciamo con una domanda che poniamo a ogni maestro intervistato: cosa hai imparato alla Biennale Teatro, nel tuo caso in questi sette anni?
All’inizio, il mio desiderio era quello di dare l’opportunità ai partecipanti del College di imparare una parte del nostro lavoro. Quello che non mi aspettavo è tutto quello che gli allievi hanno invece dato ai maestri.
Abbiamo sempre detto che quando i laboratoristi ripartivano da Venezia, avrebbero portato con loro qualcosa in più “in valigia”; invece, penso che quelli che hanno avuto più cose da portare con sé al rientro siano stati i maestri – tutti. Per me è stata una scoperta importante.

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Murgia, gli orchi e il futuro

Per capire e vivere meglio Le Chagrin des Ogres bisognerebbe tornare con la memoria al 2009, quando è stato creato, o meglio ancora al 2005, quando è ambientato.
In quell’anno, che so, nasceva Youtube, veniva approvata la Costituzione Europea, moriva Wojtyla e Ratzinger veniva eletto papa. Scorsese e Eastwood facevano incetta di Oscar con The Aviator e Million Dollar Baby, la Juventus vinceva l’ennesimo campionato ma poi doveva fare i conti con Calciopoli; Berlusconi si dimetteva e poi subito tornava al governo per la terza volta, mentre la Margherita di Rutelli aderiva all’Ulivo. Intanto continuava la guerra in Iraq e Londra era colpita dal primo attentato alla metropolitana, rivendicato da Al Qaida. E Harold Pinter, con nostra grande gioia, vinceva il Nobel.
Che vi pare? Una vita fa, no?
Dove eravate voi nel 2005? Cosa facevate? Ve lo ricordate?
Le chagrin des Ogres è uno spettacolo che arriva da quei tempi: è un lavoro quasi di cronaca, ma che oggi gioca con la memoria. Evoca anni che sono vicini, ma per tanti aspetti ormai lontanissimi. Continua a leggere Murgia, gli orchi e il futuro

Dal workshop di Eva-Maria Voigtländer

Ho da pochi giorni partecipato al workshop di Eva-Maria Voigtländer.
Avevo fatto domanda per questo seminario perché mi incuriosiva la figura del dramaturg ed essendo un’attrice-autrice, immaginavo di poter essere notevolmente nutrita dal lavoro che sembrava proporre.

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Parole d’artista: Mark Ravenhill | talk

«L’esperienza di Brexit mi ha fatto riflettere su diversi motivi per cui il nostro lavoro può essere importante e utile: la capacità di ascoltare, il tentativo di avere empatia – come dice Declan Donnellan –, la possibilità di stare insieme.
In Gran Bretagna abbiamo problemi gravi con queste modalità. Per questo il teatro è necessario e importante»

«Alla prima lettura di un testo cerco prima di tutto il coinvolgimento, il piacere, la gioia, lo stupore. Sicuramente di non trovare qualcosa in cui mi sento a mio agio e che già conosco»

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Parole d’artista: Declan Donnellan | talk

«Io e Nick Ormerod ci consideriamo dei “rifugiati culturali”. La mia famiglia è irlandese e sono cresciuto in Inghilterra, per cui ho sempre avuto problemi d’identità.
Il progetto europeo è molto importante, a volte rischiamo di dimenticare la sua serietà. Anche oggi rimane una possibilità fondamentale, come lo era anche nel 1914 o nel 1939»

«Credo che il teatro sia molto politico, ma non credo che ci debba dire cosa votare. Invece, deve porre domande. L’atto politico del teatro consiste nel parlare a gente che ha punti di vista diversi dal tuo»

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L’incanto e la seduzione, tra maestri e allievi

Venezia, si sa, è la città più romantica al mondo. Lo sapeva Gabriele D’Annunzio, quando scriveva il romanzo Il fuoco, in cui la bellezza regale del paesaggio prende il sopravvento sui personaggi, fino ad appiattirli sullo sfondo: «Ogni ansia cedette al piacere semplice che davano ai suoi occhi gli spettacoli mattutini. Gli celavano il pallore di Perdita le fronde soverchianti i muri degli orti, ove già si svegliava il cinguettio dei passeri. Nelle ondulazioni dell’acqua si persero le labbra sinuose della cantatrice. Accadeva in lui quel che accadeva intorno. L’arco e l’eco dei ponti, le alghe natanti, il gemito dei colombi erano come il suo respiro, la sua fiducia, la sua fame». Parole che dipingono con delicatezza il ritratto di un uomo sessualmente appagato dopo aver abbandonato una «non più giovine» donna, «la Foscarina». [G. D’Annunzio, Il fuoco, a cura di Niva Lorenzini, Arnoldo Mondadori editore, Segrate, 1996, p. 120]

British actor aPrague, Czech R (CTK via AP Images)
Mark Ravenhill (foto Michal Krumphanzl)

La seduzione, allora – descritta dall’enciclopedia Treccani come l’atto di «distogliere dal bene con lusinghe e allettamenti […] indurre una persona, forzandola con false promesse […] ad avere rapporti sessuali» – si può dire “di casa” nella Serenissima. E qui nacque, crebbe e cominciò le sue prime avventure amorose – narrate nell’autobiografia Histoire de ma vie (Storia della mia vita) – il seduttore per antonomasia Giacomo Casanova. Proprio da una simile suggestione ha preso spunto Mark Ravenhill, ospite alla Biennale con un workshop: ha scelto per la sua ricerca il rapporto tra seduzione e teatro, esplorando le possibilità drammaturgiche insite nel meccanismo della relazione “seduttore/sedotto”.

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Un Decameron secondo Angélica Liddell

Una catasta di topi morti. Veri, finti, non si sa, da cui pian piano sale in ogni caso l’odore del trapasso e di cui rimane impresso nell’orizzonte scenico il profilo del cumulo di bestie, il senso di poter essere cadaveri seppur lontani e piccoli. Ecco quello che resta sul pavimento delle Tese dei Soppalchi dopo l’Opendoors di Angélica Liddell, in residenza alla Biennale Teatro per una ricerca verso il suo prossimo lavoro. Sarà Boccaccio, il Decameron, le favole, la fuga, e naturalmente la peste. La peste nera, quella vera e non solo metaforica: quella che materialmente sconvolse l’Europa nel Trecento, traghettando l’Occidente dal Medioevo ai tempi moderni, e quella che invece simbolicamente – lo diceva Camus riferendosi probabilmente alla peste brune – è sempre all’erta anche adesso, bisogna tenere gli occhi ben aperti e le orecchie attente per beccarla – almeno stavolta se si riesce – prima che scoppi il flagello.

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Dal workshop di Mark Ravenhill

Vi andrebbe una tazza di zuppa?
Sì. Dico proprio la zuppa. Non è una metafora. Se vi andrebbe, dico. È un’offerta precisa, se vi va la accettate altrimenti niente, resta nella pentola, alla peggio sul tavolo, già servita. Magari potete prendere tempo per capire – cosa ci ho messo se è calda se vi voglio avvelenare – o potete rilanciare, proponendomi chessò una carbonara. O cambiare discorso, che pensare alla zuppa vi ricorda nonna e allora poi ci si intristisce. Ecco, cambiamo discorso.
Siamo a Venezia, orde di turisti come zanzare, solita orgia di spritz e spettacoli e a dire il vero non fa manco troppo caldo, anzi direi il clima ideale per seguire senza sudare troppo la masterclass di Mark Ravenhill che quest’anno declina il tema della seduzione, echeggiando le gesta di Casanova che pare se ne intendesse. Bene. Continua a leggere Dal workshop di Mark Ravenhill

Parole d’artista: Enrico Castellani (Babilonia Teatri) | talk

«È un premio che è arrivato assolutamente inaspettato. È un periodo carico di dubbi e ricevere questo riconoscimento è stato per noi un’iniezione di fiducia, per portare avanti il nostro percorso anche nonostante tutto quello che c’è intorno»

«Abbiamo iniziato lavorando nelle scuole e in carcere. Nessuno di noi ha avuto una formazione accademica. Eravamo noi a proporre il teatro ad altre persone che non facevano parte di questo mondo e così abbiamo dovuto cercare una lingua che consentisse loro di entrarvi in relazione»

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Ieri e oggi: il teatro e la peste

Dopo centinaia d’anni di sospetto e censura, il Decameron torna a parlare al presente. Sarà innesco, stimolo, suggestione stasera dell’Opendoors di Angélica Liddell, in residenza alla Biennale Teatro per la creazione del suo nuovo spettacolo.
Contestata per immoralità quasi immediatamente dopo la pubblicazione, discussa nel clima pre- e post-tridentino, subito inserita nel Cinquecento nell’Indice dei libri proibiti, la maggiore opera di Boccaccio riprende il centro dell’attenzione fra Otto e Novecento, diventando riferimento e spunto importante nelle arti, nella cultura e nella letteratura degli ultimi 150 anni.
Sarà per la forma della favola, per il suo afflato allo stesso tempo sovversivo, popolare, ed educativo. Sarà per i protagonisti, una libertina brigata di giovani in fuga che sceglie di rinchiudersi insieme in campagna, sottraendosi all’infuriare del morbo in città. Sarà forse per la cornice – ma è certo molto più che una cornice, come sosteneva il nostro maggiore studioso boccaccesco, Vittore Branca – della peste del 1348, che l’autore sceglie come contesto dell’opera, scritta mentre il flagello si stava abbattendo su Firenze e sulla famiglia dell’autore stesso, e pubblicata proprio a ridosso dell’epidemia.

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Babilonia teatri: ieri che non torna

Sarebbe bello tornare a ieri. Tornare al minuto prima che accada tutto.
Fermarsi e evitare le conseguenze. Che poi arrivano. E invece andiamo avanti, come se nulla fosse, pensando che tutto sarà normale, uguale, semplice.
Ma c’è quel minuto in cui tutto cambia.
Pinocchio, di Babilonia Teatri, potrebbe essere letto anche come un lungo flashback, un tornare – sempre di nuovo – a quel momento, a quel passato che non è mai passato.
È uno spettacolo che è una trappola, che inizia come un gioco, una sorta di intervista goliardica, che slitta, divaga, diverte: piano piano presenta i tre protagonisti della scena, quei tre uomini risvegliati dal coma.
Le loro storie si intrecciano, gioco nel gioco, con la vicenda del burattino di legno. Apparentemente le cose non tornano: che c’entra Collodi?
Poi però – in un’esplosione tragica – improvvisamente tutto torna, tutto si tiene. È il sapore acre del fiato di Lucignolo, è la prospettiva grottesca del Paese dei Balocchi. È la trasformazione di uomini – o di burattini – in altro, molto altro.

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Dal laboratorio di Declan Donnellan

Al workshop tenuto da Declan Donnelan partecipiamo in una ventina, tutti attori (e qualche regista in incognito) provenienti da Spagna, Romania, Austria e Italia. Si lavora sul Macbeth di Shakespeare.
Prima dell’inizio del lavoro in coppia, abbiamo ricevuto l’indicazione di preparare una scena a scelta dal testo da studiare nella nostra lingua; ma il tema, lo sappiamo tutti, è la recitazione.

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Dal laboratorio con Christiane Jatahy

Non mi è mai piaciuto particolarmente l’utilizzo del video a teatro. In un certo qual modo perché l’ho sempre trovata una strada facile per risolvere delle problematiche, o per trovare un linguaggio che fosse “alternativo/sperimentale”, insomma uno strumento in più che “ fa contemporaneo”. Christiane con questo breve laboratorio, e con lo spettacolo visto al teatro alle Tese ha invece dimostrato di come questi due linguaggi possano dialogare potentemente tra loro, senza sminuirsi, o perderne la specificità, bensì nutrendosi l’uno dell’altro. Incredibilmente il linguaggio cinematografico diventa teatrale e viceversa.

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Tre giorni per incontrare Christiane Jatahy

Tre giorni sono pochi per un workshop ma la sensazione che in molti abbiamo avuto con Christiane Jatahy, è stata che la densità del tempo fosse come raddoppiata e che le cose fatte, in condizioni normali, avrebbero richiesto almeno una settimana.
Il primo giorno, Christiane ci ha parlato del suo lavoro e dei nuclei centrali della sua ricerca sui rapporti possibili tra linguaggio cinematografico e linguaggio teatrale. È stato un racconto fitto, complesso ma estremamente concreto. Un dialogo in cui le nostre domande e suggestioni aprivano nuovi punti di vista sulla sua poetica.

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Parole d’artista: Willem Dafoe | talk

«Quando ero giovane mi piaceva andare a teatro. All’inizio è stato un amore amatoriale. Sono sempre stato attirato dai gruppi e quindi, poi, sono capitato in alcune situazioni che mi hanno segnato profondamente. Solo in seguito mi sono reso conto che ero un attore»

«Il teatro si basa principalmente sulla letteratura. Invece a me piace ballare, muovermi nello spazio, i trucchi scenici. Quello che mi ha attirato del teatro più che la letteratura è stato lo spettacolo: piegare il tempo, affrontare la presenza fisica dell’attore»

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Il teatro degli Altri

Bisognerebbe sempre pensarci, al dolore degli altri – come diceva Susan Sontag.
Alla condizione degli altri: anche a teatro.
Pensare, almeno noi critici, sistematicamente e continuamente a quelli là, che stanno in scena: gli attori, le attrici. Tanto più quando sono professionisti (o non professionisti) particolari e unici. Di solito, quando ci troviamo di fronte al teatro cosiddetto “sociale”, partiamo prevenuti. Magari positivamente, ma prevenuti.
È un teatro, infatti, che implica la presenza di individui o gruppi che vivono contesti sociali determinati e determinanti. Il carcere, la malattia mentale, il disagio fisico: persone che incarnano, esprimono la propria condizione, anche attraverso il teatro.
Allora noi, i critici dotti e sapienti, andiamo a quegli spettacoli con l’amorevole compassione preventiva, con l’adesione rivoluzionaria in tasca, con il libretto del perfetto democratico imparato a memoria. E ne usciamo, ovviamente, sconfitti.
Perché il pre-giudizio è sbagliato, sia esso negativo o positivo.

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