Un Decameron secondo Angélica Liddell

Una catasta di topi morti. Veri, finti, non si sa, da cui pian piano sale in ogni caso l’odore del trapasso e di cui rimane impresso nell’orizzonte scenico il profilo del cumulo di bestie, il senso di poter essere cadaveri seppur lontani e piccoli. Ecco quello che resta sul pavimento delle Tese dei Soppalchi dopo l’Opendoors di Angélica Liddell, in residenza alla Biennale Teatro per una ricerca verso il suo prossimo lavoro. Sarà Boccaccio, il Decameron, le favole, la fuga, e naturalmente la peste. La peste nera, quella vera e non solo metaforica: quella che materialmente sconvolse l’Europa nel Trecento, traghettando l’Occidente dal Medioevo ai tempi moderni, e quella che invece simbolicamente – lo diceva Camus riferendosi probabilmente alla peste brune – è sempre all’erta anche adesso, bisogna tenere gli occhi ben aperti e le orecchie attente per beccarla – almeno stavolta se si riesce – prima che scoppi il flagello.

Nera la peste e nera la Liddell, in abito lungo a guidare l’intera performance del suo Opendoors. Una macchia scura gettata a terra all’inizio; una silhouette quasi impressa nel muro di mattoni durante le partiture mimiche che evocano forse – chissà – qualche novella del Boccaccio; una cascata nera quando si getta sul mucchio di ratti morti; un turbine buio che si abbatte sopra due cadaverini di quelle bestiole, selezionati con una certa attenzione, deposti ciascuno al centro di un fazzoletto bianco, schiacciati entrambi a suon di pietre che si sfracellano sui loro corpicini inermi. Nera anche la sua visione del mondo si potrebbe dire: senza scampo né tregua né scrupolo per nessuno (e prima di tutto per se stessa, come performer, autrice e donna).
Così in effetti è la peste, come ce la siamo sempre immaginata da duemila anni a questa parte.

I temi sono di una amarezza lacerante: su tutti, l’invecchiamento del gentil sesso. E gli accadimenti scenici sono forti: c’è addirittura un rettilario fra il pubblico, con un serpente vero, cui l’attrice dà in pasto un topolino. Il vissuto biografico è sempre dietro l’angolo a perforare in modo dirompente la dimensione fictional: sul muro sono proiettati alcuni dei suoi celebri autoretrattos, uno dei quali che la vede picchiata e tumefatta. Certe immagini risultano potentissime, quasi insostenibili: nel finale, ad esempio, Liddell – vestita da suora – si fa letteralmente seppellire viva nel muro, con tanto di assi inchiodate. Nonostante tutta questa violenza visiva e di contenuto, la partitura è eseguita con una tale precisione, con sereno distacco che il punto non è – almeno non del tutto – la nausea dello scandalo e della provocazione.
Al di là dei cadaveri, della body art, delle scene di stampo sessuale o di nudo, della ferocia reale o evocata, della vita e della morte, della brutalità fisica, concettuale, poetica, teorica, la performance di Liddell è quasi un’incisione nell’opera di Boccaccio, e nello spazio-tempo scenico stesso. Feroce, graffiata, sofferta.
Ma – per quanto vera – appunto una performance, un’opera d’autore, una proposta artistica.

In scena si susseguono in un ritmo disteso ma intenso immagini davvero forti, che attingono energia performativa dalla realtà ma soprattutto dal suo trattamento plastico messo in opera dall’artista. Tutto comincia con una nota bassa di chitarra, suonata da un uomo in pareo candido e berretto strano (forse Boccaccio?), che scopriamo subito dopo dar vita all’azione di Angélica Liddell, stesa ai suoi piedi, grazie a un jack – in realtà un vibratore collegato alla chitarra – che l’artista estrae dai propri genitali, con una musica che non si capisce se esser partita dal suo corpo e diffusa al di fuori o essere arrivata a lei e averle donato vita scenica.
Se lui potrebbe rappresentare Boccaccio e lei la peste, i 10 giovani che li attorniano rimandano piuttosto direttamente alla “brigata” del Decameron in fuga da una Firenze appestata: dopo aver mimato in riga ciascuno una propria partitura (le novelle del libro?), restano in scena con loro, primi spettatori che osservano e ascoltano tutto quello che accade.

Le azioni compiute dalla performer hanno un che di profondamente brutale ma anche una gran dose di sacralità, non solo per i numerosi riferimenti liturgici (aspersioni, rami d’ulivo, genuflessioni, musiche, scampanellii, ecc.), ma anche e soprattutto per la precisione meticolosa, algida, quasi rituale con cui vengono compiute.
Ma per quanto forti siano le immagini, è – come sempre nei lavori dell’artista – la parola a farla da padrone: è lì che tutto si genera, in un testo debordante, straziante, poetico e profondo, da cui scaturisce anche quel poderoso intreccio plastico-visivo che tende un lungo filo intorno all’opera boccaccesca e – seppure “soltanto” in forma di materiali di studio, ancora in lavorazione – ce la restituisce completamente rifondata a parlare al nostro tempo.

Un’epoca di crisi, dove – come sembra indicare Liddell – la malattia e l’invecchiamento sono tabù; dove tutto sta cambiando, e c’è da stare ben attenti perché sì dopo una devastazione totale è possibile fare spazio a qualcosa di nuovo e migliore (come suggeriva Boccaccio, come sosteneva Artaud), ma in cui anche – lo sentiamo tutti i giorni ciascuno per sé – basta un niente per tornare indietro al flagello delle tanti pesti che hanno sconvolto l’umanità (e qui il pensiero va di nuovo all’atroce monito di Camus).
Si dice che viviamo in tempi di grandiosa libertà, possibilità, proprio sul crinale dell’abisso. Ma adesso «cosa ce ne possiamo fare di tutta questa libertà?», si chiedeva Angélica Liddell al talk pubblico della Biennale, presentando il proprio approccio a Boccaccio, e sembra chiederselo radicalmente anche attraverso la sua ricerca scenica, cucendo – com’è nel suo stile – un fulgido lacerante parallelo fra il senso di impotenza individuale di fronte al decadimento biologico e quello invece collettivo rispetto alla disgregazione sociale – un urlo freddo, vivissimo, intimo, lucido e feroce che colpisce molto di più e ben più profondamente di qualsiasi catasta di animali morti.

di Roberta Ferraresi

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