Interviste dal laboratorio di Agrupación Señor Serrano: Emilio Marchese

La parola ai partecipanti dei laboratori inseriti nel progetto La terra tremaIl tema diventa pretesto per raccontarsi, esprimere la propria prospettiva sul lavoro del workshop e sul mondo in cui vivono e lavorano.

Intervista a Emilio Marchese, dal laboratorio diretto da Agrupación Señor Serrano che lavora su Il delta del Niger.

Cosa ti ha fatto tremare durante il tuo percorso artistico e nei vari luoghi che hai attraversato?
Quando in teatro si parla di passione, di fare un qualcosa con la passione, con il sudore, con la forza e anche con il coraggio. Questo è quello che mi affascina, è quello che mi fa tremare: il mettere nelle cose che fai tutto quello che possiedi, tutto di te, andando anche oltre te, come un atto di fede. È così che vedo il teatro: e mi fa tremare le gambe, il cuore, destabilizza. È veramente una scossa.
A proposito di luoghi, poi, voglio dire che sono napoletano: la mia città mi ha segnato in senso positivo, con tutta la tradizione che l’accompagna. Napoli è un punto di partenza da cui andare oltre, non per moda, ma per arricchirti.
Due anni fa ho avuto la fortuna di fare un laboratorio con Angélica Liddell e siamo partiti tournée. Ci sono stati dei luoghi che mi hanno suscitato delle emozioni particolari: recitare all’Odeon di Parigi, l’anno scorso, con Angelica Liddell è qualcosa che ti scuote. Molto spesso c’è una difficoltà, che è forse noia: di chi non sa guardare oltre i propri confini. Non deve esser una moda guardare altrove, è semmai qualcosa che si deve sentire. Invece, troppo spesso si ozia, la pigrizia ti impedisce di cercare qualcosa che possa arricchirti.

Quali suggestioni ti ha evocato il tema del workshop, Il delta del Niger?
Questo lavoro che è qualcosa di nuovo per me, nuovissimo. Posso dire che è una ricerca che viaggia su binari diversi, va in parallelo con la riflessione sul ruolo dell’attore, con il processo creativo, perché tutto ciò che concerne il video, la installazioni, l’utilizzo di I-phone, di macchinari di nuova generazione è qualcosa di nuovo per me.
Faccio questo laboratorio da quattro o cinque giorni, e mi rendo conto che queste sono frontiere da esplorare. Nella situazione attuale, per fare questo mestiere bisogna inventare e reinventarsi e questo workshop è altamente formativo.
L’avere inserito una riflessione sull’Africa, mi tocca tantissimo, sia per la mia formazione universitaria (sono laureato in Scienze Politiche), sia perché i registi connettono l’aspetto formativo con l’aspetto teatrale. E tutto questo avviene con strumenti della nuova generazione che possono essere utili nel percorso artistico. Sono un attore che ama la creazione, che parte dal nulla della pagina bianca per arrivare ad un’evoluzione. E partire da nuove strumentazioni è dunque una forma di creazione, che credo possa essere utile a tutti.

Cosa ti fa tremare dentro e fuori il teatro?
Credo che il teatro sia la forma massima di libertà: si può far tutto, forse tranne uccidere qualcuno, ma si può rappresentare la morte.
C’è un rischio di eccessiva libertà: quel che dovrebbe arricchire, paradossalmente diventa abuso, un’arma a doppio taglio. Si dovrebbe cercare l’infinito in uno spazio finito: in teatro è importante trovare l’equilibrio. Equilibrio è la parola fondamentale del teatro.

a cura di Elisa Enrica Marinoni
foto di Anna Chiara Margapoti

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